Arrivano da ogni parte, non importa se devono percorrere duecento metri o due chilometri. Se sanno di noi, arrivano. Si portano dietro la ciotola che gli affida la mamma, può essere un pentolino, un secchiello, perfino una busta di plastica. Nera. Lì, chissà perché, le hanno solo nere, le buste. Come la pelle. Prendono il sentiero e, seguendo a ritroso l’eco del passaparola, si fanno vedere, silenziosi. I più piccoli piangono e a ragione, non hanno mai visto i bianchi. Eppure si avvicinano, la fame ha sempre vinto sulla paura. Le donne sono lì, che siano figli loro o meno, sorridono e infondono coraggio. Qualcuno cammina appena, avrà imparato a stare in piedi l’anno prima. Altri sono grandicelli, tanto da poter già andare a zappare la terra la prossima estate, quando raggiungeranno i nove o i dieci anni.
Il riso è pronto. Lo prepariamo in due o tre pentoloni cercando di insaporirlo con quello che abbiamo a disposizione, cioè niente. Infatti per noi è immangiabile, per loro è un pasto regalato che difficilmente possono permettersi. Non muoiono di fame né di stenti. Mangiano male, poco e solo quello che hanno a disposizione, cioè quasi niente. La mancanza di igiene, di cure e di cultura trasforma un batterio nello stomaco in un dinosauro che ti mangia a sua volta, da dentro. Piano piano. E poi ti ammazza, anche se hai la pancia piena. Che poi spesso è solo piena di vermi. Il riso è prezioso, chi se frega se non ha sapore.
Un po’ per uno riusciamo a riempire le ciotole. Ma solo perché quel passaparola non può raggiungere l’intero villaggio, che è esteso a dismisura e di bambini ne conta più di tremila. Sappiamo che le battaglie non si vincono così. Ciò nonostante, in zone diverse, organizziamo queste piccole mense per dare un segnale, spariamo un colpo in aria e facciamo capire che ci siamo. Non risolveremo noi i problemi né vinceremo la guerra, possiamo solo allungarla. Ma allungarla vuol dire permettere a quei bambini di diventare adulti.
Se vuoi…