Sarà che nuoto, sarà che sono sensibile, sarà che mi piacciono le storie e mi piacciono di più se raccontano qualcosa di eccezionale ma questa qui, nonostante l’abbia letta e sentita raccontare decine di volte, a me fa sempre venire quei brividi capaci di trasformarsi in lacrime di commozione.
Alle Olimpiadi di Sydney del 2000, quasi casualmente si ritrova a gareggiare per il proprio Paese, ossia la Guinea Equatoriale (e sfido chiunque a dirmi esattamente dove si trova), un nuotatore di colore, Eric Moussambani, ventidue anni. Partecipa ai 100 metri stile libero esclusivamente perché rientra in un programma speciale riservato agli atleti originari dei Paesi in via di sviluppo. Lui infatti fino ad otto mesi prima non sapeva nemmeno nuotare, giocava a pallavolo e in vita sua non aveva mai visto una piscina olimpionica. Aveva imparato a stare a galla nell’acqua dell’oceano e dei fiumi, prima di potersi allenare, sempre da solo, in una vasca vera, che però era quella decisamente piccola di un albergo.
Moussambani non ha mai gareggiato su quella distanza e non ha idea non solo di quale tempo possa realizzare ma nemmeno se riuscirà a concluderla, la gara. In realtà partecipa solo alle batterie di qualificazione: da lì usciranno gli otto migliori tempi che andranno poi a disputare la finale. Quelli forti, quindi tutti gli altri, sono irraggiungibili, lui deve preoccuparsi di dare il massimo davanti alle 17.000 persone che gremiscono il palazzetto.
Allora nel nuoto era permesso utilizzare il cosiddetto “costumone”, una tuta che copre quasi tutto il corpo ad eccezione di spalle e braccia. Moussambani non poteva permetterselo, prende parte alla batteria con un normalissimo costume, che indossa per giunta slacciato, e un paio di occhialini montati alla meno peggio. Gareggia con altri due nuotatori, un nigeriano e un tagiko, di certo nemmeno loro espertissimi. Infatti sbagliano, si tuffano entrambi prima del fischio del giudice e vengono squalificati per falsa partenza. Moussambani è solo.
Deve fare due vasche, andata e ritorno. Il suo stile non è lontanamente paragonabile a quello di chi pratica questo sport: fa una mezza “panzata” dopo il tuffo, avanza con la testa sempre fuori dall’acqua, le braccia che sembra stia affogando e le gambe larghe e basse. I primi 50 metri sono un mezzo calvario ma è dopo la virata, pessima, che la spinta inizia a mancare davvero. Va avanti piano piano, con una fatica incredibile. Non nuota, arranca. La gente, che prima fischiava, capisce cosa sta accadendo ed inizia ad applaudire fino ad esplodere in una standing ovation per accompagnarlo verso il muretto, lontanissimo. Quando arriva è un trionfo. Conclude con un tempo abissale, 1’52” e spicci, il peggiore della storia delle Olimpiadi. Gli “avversari” concludono generalmente i 100 metri in 47-48 secondi. Carlo Pedersoli, alias Bud Spencer, nel 1950 – primo italiano nella storia – li nuotava sotto il minuto. Io non arriverò mai a questi livelli, nemmeno se tornassi con la Delorean di “Ritorno al Futuro” nel 1950, a quelle Olimpiadi però avrei fatto molto meglio di Moussambani.
Quando esce dall’acqua, la folla è in estasi, lui è stremato eppure felice perché, come dirà poco dopo, “tutti facevano il tifo per me ed è stato come vincere una medaglia d’oro”. E’ una specie di eroe. I media lo ribattezzano “Eric l’anguilla”, la Speedo gli regala il famoso costumone che non aveva potuto comprarsi e lo sponsorizza per un tour in Europa. Gli procurano addirittura un interprete per dargli la possibilità di sostenere le centinaia di interviste che gli vengono richieste. Firmerà contratti pubblicitari per un bel po’ di quattrini e diventerà ingegnere, oltre che allenatore della squadra di nuoto del proprio Paese.
Per chi nuota poi l’impresa sportiva c’è stata davvero, perché Moussambani è riuscito negli anni a migliorare progressivamente il proprio tempo su quella gara, fino a portarlo a 57 secondi, crono non eccelso ma di tutto rispetto. Non è affatto facile. Oggi vincerebbe molte delle gare a cui partecipo io. Non si è crogiolato sugli allori né arreso, ha continuato ad allenarsi per dimostrare che poteva migliorare. E’ una lezione che insegna lo sport ed è anche una lezione di vita. Per me è pure una storia che mette insieme l’Africa e il nuoto, due mondi apparentemente inconciliabili e miei. Non poteva lasciarmi indifferente oggi che l’ho letta, decidendo di scriverla, per l’ennesima volta.
Se vuoi…