Il problema non è la caduta. E non è l’atterraggio. Il problema è rialzarsi, dopo. Il che non è semplice se non si era preparati al volo.
Tu non eri pronto e ti sei preoccupato ancor prima di librarti nell’aere, quando hai capito che ti saresti fatto male. Sono frangenti, frazioni di secondo in cui l’istinto di sopravvivenza prende il comando e tutto il resto passa in secondo piano. Il corpo cerca di proteggersi salvando il salvabile, non c’è tempo per le altre cose, per gli oggetti privi di anima che, nel tuo caso, erano la Vespa e lo zaino con le agende, il PC, l’hard disk con la tua vita dentro. Privi di anima poi mica tanto: la Vespa era viva quanto te e le agendine con i tuoi pensieri, i documenti, le foto nell’hard disk… beh, quelli sono te. Non avresti sopportato di perderli in un banale incidente.
E’ successo tutto molto velocemente. Un attimo prima eri in sella per arrivare in ufficio, un attimo dopo ti ritrovavi spiaccicato sull’asfalto. L’asfalto, da terra, ha un odore ancora più invadente. Il volo sarà durato pochi secondi ma è stato entusiasmante, più pauroso di Oblivion. Certo, lo avresti evitato volentieri anche perché, più che un volo pulito e leggero, si è trattato di una sequenza di capitomboli in cui volteggi aerei si sono alternati a pesanti botte sul suolo. Ad ogni botta – saranno state tre o quattro – hai avuto la lucidità di pensare. “OK, ci sei, non chiudere gli occhi, resta sveglio… non chiudere gli occhi, sta finendo… non chiudere gli occhi…” e non li hai chiusi finché non ti ha costretto, momentaneamente, il sangue che avevi sulla faccia. Era un rubinetto, ci hai messo un po’ a capire da dove colasse. Non ricordi di aver visto così tanto sangue tuo in altre occasioni, tranne forse quando lo doni, anche se lì finisce in una sacca e non appare così rosso e lucido.
Terminato il volo, resti immobile, sei cosciente. E già questa ti sembra un’enorme conquista. Fai subito un check-up partendo dalla testa fino alla punta dei piedi e delle mani per capire, uno, dove fa male e, due… se ogni parte di te risponde ai comandi. Risponde tutto – ed ecco la seconda conquista – ma non risponde benissimo. I segnali sono confusi e, soprattutto, con l’adrenalina ancora in circolo, il dolore stenta ad arrivare. Poi arriva e grida, si fa sentire. La verifica dei danni ti dice che ginocchia e gomiti si stanno lamentando, il busto è quasi immacolato e così la testa, ancora avvolta dal casco. Le mani rispondono per ultime: la destra si muove timidamente, la sinistra piange, come nella politica italiana. Quest’ultimo segnale giunge contemporaneamente allo sguardo e lì ti rattristi, il sangue cola dalla faccia e cola dalla mano, le dita sembrano triturate. L’immagine ti fa quasi venire il vomito.
Nel complesso però stai bene e non chiudi gli occhi, anche se vorresti solo dormire restando disteso lì dove sei. C’è gente intorno a te che parla una lingua sconosciuta. Chiedi più volte dei fazzoletti, per il sangue, il muco e le lacrime, nessuno sembra capirti. Forse hai solo pensato di chiederli. Ti fanno domande e non comprendi, sei concentrato ad ascoltare il tuo corpo.
All’improvviso poi torni in te, nel mondo circostante. Ti affidi agli altri ma continui a non recepire, stavolta perché di segnali, domande, pensieri ne arrivano troppi, tutti insieme. Il più forte a questo punto riguarda la Vespa o quel che – sei certo – ne è rimasto. Ti volti e trovi un grosso rottame, con vetro, plastica e metallo sparsi un po’ ovunque. Ti rigiri subito, quella scena sconvolge il tuo umore più delle dita triturate. Controlli il resto: giacca e pantaloni strappati, scarpe strisciate. Ti tolgono il casco (ma i fondamenti del primo soccorso non insegnano il contrario?!) ed è graffiato anche quello, ti portano l’orologio che era finito a dieci metri di distanza. Lo zaino con il PC pensi si sia disintegrato, giorni dopo scoprirai con sollievo che non si è nemmeno sporcato. Che abbia manifestato anche lui un istinto di sopravvivenza? L’avevi detto che le tue cose hanno un’anima.
I ricordi rimasti raccontano di ambulanza, polizia, ospedale, medici e altri infortunati. Del trasporto in barella tra i corridoi con gli occhi che scorrono lungo il soffitto a pannelli bianco, come nei film, senza sapere dove ti trovi. Delle attese infinite senza potersi muovere. Degli infermieri che parlano di “giornata dei motorini” a causa di tutte quelle urgenze per incidenti su moto. Sei stato bravo, non hai mai chiuso gli occhi. Chi non guarda in faccia a nessuno di occhi non ne ha e aspettava solo che tu li chiudessi per fissarti e prendere i tuoi. Non ci è riuscita.
Se vuoi…