Questo posto potrà cambiare forme e colori, apparirà trascurato e pieno di polvere, oltre che di scheletri ogni tanto in cerca di avventure fuori dall’armadio, respirerà a singhiozzo e forse non troverà mai un proprio equilibrio, però mi appartiene e, quando una cosa ti appartiene, può anche stare lontana da te anni luce in termini di tempo e spazio, non importa, prima o poi si rifarà viva. E tu dovrai ascoltarla. Questo posto inoltre non indica solo un luogo virtuale, un diario perso nel web nel quale scrivere e confrontarsi con se stessi e con gli altri, è qualcosa di più, è me, il prodotto dei miei pensieri, il racconto dei miei viaggi, il sudore delle mie passioni, il riciclo dei miei vuoti. Da certe cose mica ci si libera.
Così, ancora una volta, ritorno. Che non significa farsi vedere, salutare gli amici, scroccare un paio di birre (a proposito, chi offre?) e scomparire di nuovo, vuol dire restare ed essere presenti, almeno fino a quando la novità del ritorno cessa di essere tale. Non è roba di qualche giorno. Le buone intenzioni ci sono tutte.
Poi, a dirla tutta, non sono nemmeno andato via, sono semplicemente caduto, mi sono fatto male e ho dovuto procedere molto lentamente. Ero qui, vedevo gli altri passare con interesse più o meno sincero ma non riuscivo a scambiarci più di due parole, perché avanzavano troppo in fretta per me. Mi superavano e sparivano. Nessuno si fermava. Ora mi sono rialzato e sono pressoché certo di potermi persino rimettere a correre, ché la corsa è pure la mia nuova passione. Mi aiuta a non accumulare stress e tensione, esattamente come fa il nuoto ogni giorno. Anche scrivere aiuta. Infatti è nei momenti peggiori che ci si arma di carta e penna per dar sfogo ai propri problemi, come per esorcizzarli, sputarli fuori e metterli da un’altra parte, per poterli guardare da lontano.
Non mi aspettavo di poter avere problemi, io. Cioè avevo le difficoltà che più o meno tutti, nel mondo in cui vivo, affrontano quotidianamente. “Non sono questi i problemi”, si dice sempre. E invece. E’ pure che io quella particolare tendenza a distruggere tutto ciò che di bello mi capita ce l’ho. Forse è colpa di un gene, che però non ho di certo ereditato. Oppure è effetto della fatalità di quel momento che, arrivato, mi ha messo di fronte alla follia suicida con cui chiunque, almeno una volta nella vita, deve fare i conti. O forse, chissà, è semplicemente conseguenza della paura: di essere completi, di non avere altre terre da conquistare, altre mete da raggiungere o bandierine da piantare sulla mappa. Beh, cazzate. Il Cammino di Santiago mi ha insegnato che il viaggio è la meta, non ho bisogno di tagliare traguardi per vincere, vinco ogni volta che posso compiere un passo nella direzione migliore, con le persone giuste, la mente aperta e la verità in mano.
La mia strada è ora faticosa e articolata. Cammino piano ma, come dicevo, voglio anche poter correre e scattare. Il paesaggio è splendido, il sentiero praticamente invisibile, il sole imponente, filtrato da non poche nuvole e dalle foglie di alberi che sembrano pareti di un labirinto con infinite uscite e altrettante entrate. Ci sono radici che salgono verso l’alto per toccare l’aria e rami che scendono fino a bucare il suolo per intrecciarsi chissà dove sotto i miei piedi, a dimostrazione dell’esistenza di un dedalo che si dirama in ogni dimensione con, in più, la sensazione di essermi perduto.
Non sarà facile ritrovarmi ma essere qui è già tanto. E nei dieci giorni che ho impiegato a scrivere queste inutili righe, viste e riviste infinite volte in base all’umore e con un titolo che dice tutto e non dice niente, la situazione è già migliorata tantissimo. Sono tornato ad essere quasi felice. Del resto la felicità non è una linea continua ma un susseguirsi di tratteggi, con vuoti tra l’uno e l’altro che abbiamo il dovere, soprattutto verso noi stessi, di limitare il più possibile. Riparto quindi. Aggiorno le priorità che ho rischiato di confondere, metto a posto la to do list, cestino l’inutile, prendo la fotocamera e scatto.
Se vuoi…